CHI VI DARA’ UN BICCHIERE D’ACQUA NEL MIO NOME (Mc. 9,11)

Giovanni, l’amico di Gesù, era giovanissimo quando lo incontrò: aveva sui 14/15 anni. Lo vide camminare sul bagnasciuga del lago di Genezareth dalla barca, mentre con il fratello Giacomo e Pietro stavano per accostare alla riva. Restò affascinato da quel Rabbi trentenne che, come altri rabbi, percorreva le strade della

Galilea e fu affascinato dai gesti e dai suoi racconti. E quando Gesù rivolse loro l’invito: “Venite con me…”, Giovanni, come Giacomo e Pietro, lasciò tutto e lo seguì. I tre si affezionarono a Gesù, fecero proprio l’annuncio ascoltato, condivisero il suo programma come il suo peregrinare di paese in paese, divennero il gruppo “dei suoi”, a cui si aggiunsero in seguito altri. 

Giovanni, il più giovane, era geloso del dire e del fare del suo Rabbi. Quando un altro rabbi, – all’epoca erano parecchi in Galilea – cacciò un demonio da un ossesso, Giovanni si preoccupò della concorrenza e chiese a Gesù se dovevano impedirglielo … “No, disse Gesù, non glie lo impedite perché chi fa del bene, bene è, senza etichette … Chi vi darà un bicchiere d’acqua nel mio nome, non perderà la sua ricompensa”. 

Fare del bene “nel nome di Gesù” è un bene fatto bene e, come tale, un vero dono di vita.

Quali le condizioni per fare del bene fatto, un vero dono di vita? Quali gli atteggiamenti personali che lo favoriscono? Propongo alcune dinamiche ispirate alla sapienza delle Scritture.

Perché il bene sia fatto bene, deve essere una risposta a necessità vitali: l’acqua all’assetato, il pane all’affamato, un luogo ospitale allo straniero, la parola di consolazione allo sconsolato, un sorriso allo smarrito, l’incoraggiamento al depresso, la visita al carcerato; sono tutte risposte a necessità vitali. Per formularle, queste risposte, e attivarle, è necessario ascoltare le persone e saper vedere le situazioni. Questo richiede tempo e pazienza. Papa Francesco, nell’ Evangeli Gaudium n. 155, dice con un velo di ironia: “Non bisogna mai rispondere a domande che nessuno si pone”. 

Perché il gesto di risposta alle necessità sia un gesto benevolo e sortisca un beneficio, si esige che ci si prenda cura di chi sta accanto a noi o di chi si incontra per caso, guardandolo negli occhi. Gli occhi raccontano chi è che invoca e chi è chi lo soccorre. L’incrocio degli sguardi senza veli stabilisce incontro delle persone e il prendere a carico storie vissute. Il guardarsi negli occhi con semplicità è già un bene scambiato, che poi si esercita nel gesto della mano aperta. Perché il guardarsi negli occhi e il gesto di soccorso siano davvero “incontro” occorre attivare attorno a noi un habitat famigliare nella verità, che ci obbliga ad un continuo approfondimento del comprendere in un percorso generativo. 

In questo percorso generativo entra in atto “chi fa … nel mio nome” e l’atto della fede. 

L’agire nel nome di Gesù ha un significato preciso. Gesù è il figlio che agisce comunicando a tutti la fratellanza e che, con la sua vita, ci racconta Dio in mezzo al popolo come Padre e Creatore. Dio è per noi e con noi amorevole misericordia e generatore di vita. Il nostro gesto di bontà, che è dono di vita, è traccia del divino nella storia.

Nel nome di Gesù e di Dio è un fare e un praticare il primissimo comando della Genesi che afferma: “Maschio e femmina li creò e saranno uno … crescete, moltiplicatevi, abitate la terra, custoditela e fate crescere la vita”.

Il mondo e il suo cammino è affidato a noi, a noi artigiani di relazioni.

 don Renzo

Ivrea, 30 settembre 2018