MARINO MARINI: “L’ORIGINE DELLA FORMA. SCULTURE E DIPINTI”AD AOSTA

Oltre 100 opere. Marini: “Non comincio  mai una scultura prima di indagarne pittoricamente l’essenza”

GIUGNO 2003

AOSTA –-Venerdì 20 giugno, nella sede del Museo Archeologico Regionale di Aosta, piazza Roncas 1 (info:  tel. 0165. 27.59.02), si inaugura la mostra Marino Marini, « L’origine della forma. Sculture e Dipinti», dedicata alla personalità e all’opera di uno dei maggiori maestri dell’arte europea, che rimarrà esposta fino al 26 ottobre  2003.

La rassegna, organizzata in collaborazione con la Fondazione Marino Marini di Pistoia, curata da Erich Steingräber, uno dei più noti conoscitori internazionali dell’opera di Marini e da Alberto Fiz, si inserisce nell’ambito del Progetto «Valle d’AostArte» e comprende oltre 100 opere, tra sculture e dipinti, provenienti da importanti collezioni pubbliche e private italiane e straniere, tra cui la Hamburger Kunsthalle di Amburgo, la Kunsthaus di Zurigo, oltre alla Fondazione Marino Marini di Pistoia, il Museo Civico di Pistoia, il Museo Marino Marini di Firenze, la Collezione Barilla d’Arte Moderna di Parma.

La mostra, curata da Erich Steingräber e  Alberto Fiz, presenta un taglio inedito e  intende analizzare i differenti aspetti dell’indagine di Marini (Pistoia, 1901-Viareggio, 1980)  esponendo  l’intero corpus della sua opera, dalle prime realizzazioni degli anni venti sino alle testimonianze degli anni settanta. «La mostra vuole affrontare l’opera di Marino in tutte le sue sfaccettature rivelando anche quegli aspetti nascosti che non coincidono necessariamente con i suoi celebri Cavalli e Cavalieri», spiega Alberto Fiz.

Accanto alle opere scultoree, la mostra approfondisce l’esperienza pittorica di Marini presentando alcuni capolavori come Il Teatro delle Maschere del 1956, considerato forse il suo dipinto più importante. Un’attenzione particolare viene data ai ritratti, «i più vivi e pungenti apparsi in scultura dopo la ritrattistica egizia e romana e dopo i capolavori rinascimentali e barocchi», come ha sottolineato Giovanni Carandente. In questo ambito, vengono esposte le opere di Marini dedicate agli amici artisti, intellettuali e personaggi della cultura come Carlo Carrà, Marc Chagall, Fausto Melotti, Germaine Richier e Curt Valentin.

Sono capolavori di introspezione psicologica ed esistenziale nei quali Marini riesce a “distillare” lo spirito del modello attraverso un profondo scavo nei tratti fisici. Anche la moglie, Marina, è spesso elemento d’ispirazione e in mostra sono messe a confronto due opere dedicata a Marina, entrambe del 1940.

Dal Museo Civico di Pistoia giunge il primo ritratto eseguito dall’artista poco più che ventenne, Testa di uomo, da cui emerge la straordinaria capacità plastica dell’artista che dimostra l’intendimento di andare oltre l’immagine esteriore per coglierne gli aspetti più intimi. Dalla Fondazione Marino Marini di Pistoia, giungono, poi, i piccoli ritratti L’ammalata, 1927-28, e La monaca, 1928, che rivelano l’influenza di Medardo Rosso; mentre lo studio della figura umana intera dà luogo ad esiti di “arcadica naturalezza” nelle opere giovanili come Giovinetto, 1927-28, e Piccolo nudo, 1929, nate da una lunga meditazione dei modelli classici e rinascimentali.

L’osservazione dell’uomo espressa nella forma realistica e classica risulta essere per Marini la fonte primaria d’ispirazione e assume una declinazione di solenne arcaicità in Ersilia, proveniente dalla Kunsthaus di Zurigo, monumentale legno policromo iniziato nel 1930 e portato a termine soltanto nel 1949, considerato tra i capolavori della scultura del XX secolo. Qui il modello originario muta, dopo una lunga elaborazione, nella versione finale di un idolo silente, immoto, carico di mistero, come talune sculture dell’antico Egitto ed etrusche.

La mostra prosegue con le tante figure femminili come Giovinetta, 1943, Piccola Pomona, 1943, Piccola Giuditta, 1944, e Piccola danzatrice, 1944, dove sono chiari i riferimenti alla classicità greca. «La figura femminile sta nella nostra natura», ha scritto Marini. 

Ma è soprattutto al tema equestre che Marini affida la sua riflessione sulla condizione umana. Il mito del cavaliere che prende forza e slancio dall’animale diventa simbolo dell’uomo che procede verso un orizzonte ignoto, carico di un destino minacciato da catastrofi cui finisce per soccombere. I due Cavalli del 1942 e del 1945, entrambi provenienti dalla Fondazione Marino Marini di Pistoia, sono ancora figure serene e calibrate, salde nella loro postura e affidate ad una precisa scansione spaziale e prospettica. Per quanto riguarda, invece, i capolavori del dopoguerra come Cavallo del 1950 proveniente dalla Hamburger Kunsthalle e Cavaliere del 1951 messo a disposizione dalla Collezione Barilla i volumi, pur mantenendo una spazialità verticale, cominciano a scompaginarsi.

«Le mie statue equestri – scrive il Marini – esprimono il tormento causato dagli avvenimenti di questo secolo. L’inquietudine del mio cavallo aumenta a ogni nuova opera, il cavaliere è sempre più stremato, ha perduto il dominio sulla bestia». E ancora: «Io aspiro a rendere visibile l’ultimo stadio della dissoluzione di un mito, del mito dell’individualismo eroico e vittorioso, dell’uomo di virtù degli umanisti. La mia opera degli ultimi anni non vuole essere eroica, ma tragica». Questo processo si compie in modo definitivo con i Miracoli di cui in mostra compare Piccolo Miracolo del 1951 e Miracolo del 1956.

I Miracoli rappresentano cavalieri rovesciati dove «l’idea parte fino a distruggersi», come scrive Marini. Che aggiunge: “Questa idea infuocata, la poesia di questo cavaliere che ad un certo punto si rompe, vuole andare in cielo, vuol bucare la crosta terrena”. Tragica interpretazione figurativa della realtà storica, scandita da un’evoluzione stilistica che muove verso esiti di potente drammaticità e da un linguaggio sempre più improntato all’astrazione.

Accanto alle sculture, un’attenzione particolare viene riservata ai dipinti, da cui emerge la straordinaria capacità di sintesi compositiva propria di Marini in opere per nulla subalterne all’indagine plastica. «Ho sempre avuto bisogno di dipingere. Non comincio mai una scultura prima di indagarne pittoricamente l’essenza», ha dichiarato l’artista. «Creo un colore vicino ad un altro e poi ci disegno sopra, ci ritorno sopra fino a che non si creano delle incrostazioni le une sulle altre che poi danno la materia da sé».

La pittura e lo studio del colore rappresentano, dunque, per Marini un luogo privilegiato di riflessione e ricerca, un’altra straordinaria avventura cui affidare il suo imponente repertorio di figure e personaggi. Da Pomone, Giocolieri, Cavalli, agli affollati gruppi di figure come La parata I, 1950, e lo straordinario Teatro delle maschere (1956), considerato il suo capolavoro, sino a Mobilità del colore (1958), una composizione astratta tutta giocata sui rossi, sono molti i soggetti e i temi presentati in mostra nell’ambito di un percorso che rivela il misterioso legame tra scultura e pittura.