X del Tempo Ordinario – 05 giugno 2016

DICO A TE, ALZATI. RISURREZIONE A NAIM

Tutti desideriamo una vita bella, buona e felice. È il desiderio che anima ogni nostro desiderio particolare. Chi non lo sentisse gorgogliare, questo desiderio, nel fondo del suo cuore, finirebbe nella depressione e se questa carenza durasse a lungo, potrebbe sprofondare nel buco nero della disperazione. La vita nostra è un dono e un compito, attraversato da questo desiderio.

Il racconto, redatto dalla chiesa di Luca dopo circa 50 anni di fede vissuta nel Cristo Risorto, descrive quanto avvenuto a Naim, piccola città situata a circa 10 Km da Nazareth ai piedi della collina di Morè. Il nome Naim significa “città ridente”. Naim, nel racconto di luoghi e azioni del programma itinerante del Rabbi Gesù, fu una delle soste.

In quel tempo, giunto Gesù con i suoi discepoli e tanta gente alla porta della città, si imbattè in un corteo funebre. Portavano alla tomba un ragazzo, figlio unico di madre vedova. Varcare una porta della città, più allora che oggi, era un’azione importante e decisiva. Chi entrava, entrava a far parte della polis e della civitas e si attivava per vivere in un “insieme” con diritti e doveri, in cui esercitava la sua decisione libera e compiva il suo lavoro per il bene comune. Chi usciva si avventurava in un luogo non protetto e senza regole. Si poteva anche varcare la porta senza possibilità di ritorno, come quel ragazzo morto, portato verso la tomba, portato verso la porta dello sheol.

Gesù, con i suoi, sbarrò il cammino al corteo funebre. Guardò quel ragazzo e quella madre: il ragazzo aveva perso la vita, la madre aveva perso tutto, il mondo degli affetti e ogni ragione per vivere. Gesù “fu preso da grande compassione per lei”. Le disse: “Non piangere!”. Si avvicinò, toccò la bara. I portatori si fermarono stupiti. Un gesto inconsueto e contrario alle norme rabbiniche. Il contatto con gli apparati funerari rendeva impuro un Rabbi. Gesù sfidò la norma perché, profondamente commosso, non poteva sopportare che la morte avesse l’ultima parola. La morte è l’anti-vita, è la nemica di Dio che è vita. La morte va vinta e Gesù ingaggiò la lotta contro la morte tutti i giorni, perché offrì e inaugurò il Regno del Dio della vita. Una lotta che si fece estrema sul Calvario. Gesù, quel giorno, si caricò di quella impurità e della morte di quel ragazzo. Reagì con decisione: “Ragazzo, dico a te, alzati!”. E lo restituì vivo alla madre. Egli esercitò il potere sulla vita.

Anche noi abbiamo il potere-dovere di dare vita. Siamo nel mondo per questo. È il nostro primo compito generare vita, crescere vita, accogliere vita, promuovere vita. Chi non sa accogliere vita e promuovere vita, perde la relazione con il Dio della vita e si disumanizza perché la vita donata da Dio si vitalizza solo con noi e attraverso noi.

La morte è la nemica da abbattere, il grande mistero del limite, la porta di uscita da questo mondo, la soglia estrema della nostra passione di vivere e della nostra debolezza. Chi esce da quella porta, non precipita nel buco nero del nulla. Appena varcata quella soglia – Gesù ci assicura – interviene Dio con il suo abbraccio: “Alzati, sarai con me sempre!”. E Dio dà compimento al nostro progetto di vita rimasto necessariamente incompiuto e darà, a quella persona abbracciata, una vita bella, buona e felice.

Anche la terra finirà con nuovi cieli e nuova terra. Il Vangelo pure, che ha annunciato una vita bella, buona, felice, finirà.

Che resta da fare? Calamandrei nel giugno 1946 lo disse alla Costituente che stilava la nostra Carta. Quanto disse valse per l’Assemblea di Montecitorio e vale per il più vasto palcoscenico della vita in questo mondo: “Noi siamo qui riuniti per debellare il dolore e ridurre la maggior quantità possibile di infelicità”.

Don Renzo