IL PASTORE “BELLO” E NOI PASTORI

Io sono il pastore kalòs (bello e buono). Il buon pastore offre la vita per  le pecore” (Gv. 10,11).

Affermazione di Gesù conosciutissima, raccontata nell’ immagine già nelle catacombe.

I versetti 27-30 letti durante la messa: “Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono. Io do loro la vita eterna e non  andranno mai perdute e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti e nessuno può rapirle dalla mano del Padre mio. Io e il Padre siamo una cosa sola”,

appartengono al discorso di Gesù nel tempio durante la festa della Dedicazione per commemorare la riedificazione del Tempio ad opera dei Maccabei (164 a.C.), dopo la profanazione di Antioco IV Epifane. I giudei fanno cerchio attorno a Gesù e lo provocano perché si identifichi con il Messia e dica parole che autorizzino la sua condanna ufficiale (vv. 22-16). E’ l’ultimo grande scontro nella narrazione di Giovanni, tra Gesù e i suoi avversari. 

Gesù, nel suo dire, si identifica con il pastore atteso e preannunciato da Ezechiele e quindi afferma implicitamente di essere il Messia davidico: Yhwh è tornato ad occuparsi personalmente delle sue pecore, del popolo di Israele.,

Nell’ edificazione della Chiesa cristiana come Corpo di Cristo, nei primi secoli, sono designati come “discepoli-pastori” coloro che, con l’unzione sacerdotale, vengono dichiarati “ministri”, cioè servitori del Popolo di Dio e pertanto responsabili dell’annuncio del Vangelo. I pastori ministri presiedono la celebrazione della cena e abitano in mezzo al popolo. 

Allargando l’orizzonte dell’ intera piattaforma umana del vivere nel mondo e del mondo, sono pastori gli educatori responsabili della crescita dell’uomo, perché l’uomo non nasce uomo già fatto: si fa giorno per giorno fino alla pienezza di vita, capace di ridare vita. Pertanto, sono pastori del suo vivere e del suo abitare,  i genitori, i maestri, le persone adulte, gli artisti che tracciano, per gli uomini, la via della bellezza. 

Ogni adulto che sta in piedi, cammina come “pastore dell’esser-ci” cioè dell’essere-qui nel mondo come tessitori di relazioni. Tutti i pastori tramandano, da una generazione all’altra, la “tradizione” e le tradizioni:  ciò che vince l’usura del tempo, perché vero (A. D’Avenia). Se la tradizione e le tradizioni non vengono trasmesse, manca ai “pastori” un mondo vero su cui costruire un mondo nuovo per la crescita dell’uomo.

La parola evangelica indica le azioni tipiche del Pastore: conoscere e ascoltare la voce (il rimando è ad Is. 43,1 “Non temete … ti ho chiamato per nome … Perché tu mi appartieni”).  L’appartenenza qualifica la cura del gregge nella libertà. La cura è nella libertà perché un reciproco dono di vita, cioè la forma più alta del saper amare. 

Ivrea, 12 maggio 2019                                                                                                                          don Renzo