IO SONO IL BUON PASTORE

Una delle più antiche immagini di Gesù buon pastore è un affresco, segnato con colori minerali, che si trova nella catacomba di Priscilla a Roma. Tale immagine è costituita da due alberi ai lati, sopra i quali sono appollaiate due grosse colombe che tengono nel becco ramoscelli di ulivo e, al centro, il pastore, che ha ai piedi due pecore e ne tiene un’altra sulle spalle. Il riferimento è al Vangelo letto, al Salmo 22 (Il Signore è il mio pastore, nulla mi mancherà …) e al mitico personaggio greco Ermes, divinità che, in epoca arcaica, era guida del gregge.

Essa racconta come la comunità cristiana, nel tempo difficile della persecuzione, cercasse guida e protezione in Gesù, raffigurato appunto come pastore buono e bello.

Il testo di Gv. 10, 11-18, riporta le parole di Gesù: “Io sono il buon pastore (nel testo greco “io sono il pastore bello”), conosco le mie pecore e per esse do la vita”.

Appena la comunità cresce e si configura, trova nella figura e nelle parole di Gesù pastore la fisionomia e la missione di quanti in essa hanno responsabilità, presbiteri e vescovi, e, in un modo ancor più allargato, la stessa fisionomia è ribaltata sui seguaci di Cristo, testimoni della sua presenza nella storia. Ciò che caratterizza la presenza e l’attività del Pastore è la cura, una delle quattro caratteristiche che disegnano, secondo E. Fromm, l’arte di amare. La cura è l’azione amorevole che promuove vita e ne favorisce la crescita.

Se nell’esperienza cristiana di oggi quanti abbiamo responsabilità nelle famiglie, nella chiesa, nella convivenza civile, ci lasciamo configurare come “pastori” sull’esempio di Cristo, quali itinerari di vita possiamo individuare nella nostra doverosa azione di testimoni? Ne indico alcuni. Il primo modo di essere coscientemente pastori è quello di non sfuggire alla storia e di prendere coscienza che ogni uomo e ogni donna adulti sono “pastore dell’essere”. Non siamo fatti per vivere soli e isolati. Il nostro stare nel mondo è il nostro “esser-ci”, con accanto altri che sono con noi e con i quali dobbiamo tutti indirizzarci verso una crescita e un compimento. Ci facciamo uomini e donne insieme, dando vita e ricevendo vita.

Questo richiede “ascolto dell’esser-ci”, di quanto vibra e palpita attorno per uno sforzo di conoscenza e di discernimento, per una condivisione di gioia e dolore, smarrimenti e speranze, alimentando quanto di buono è in noi e attorno a noi. Ogni uomo ha una originaria vocazione al bene, a crescere nel bene e a far crescere il bene. Fin dalla creazione ogni opera creata merita dal Creatore la constatazione: “e vide che era cosa buona”.

Nel contesto storico attuale è opera di bene attivare dialogo tra le generazioni e i corpi sociali. Per far questo ci è stata data in dono la parola. “L’uomo non è stato creato – commenta Ravasi – come una monade chiusa in se stessa. Sul ponte della parola passano l’amore, spesso inseguito dall’odio, avanza la felicità che ha sopra le nubi del dolore, procedono insieme le scoperte della ragione e le verità del cuore”. L’uomo per questo fine, ha ricevuto numerosi dei talenti che scomparirebbero e si svilupperebbero solo in modo imperfetto, se egli passasse i suoi giorni in solitudine”. (Montesquieu) Ogni doverosa crescita e moltiplicazione dei nostri talenti è promozione e crescita di vita. Arrivare ad essere se stessi, vuol dire riconoscere che siamo tali a partire da chi ci circonda. 

Se ci lasciamo configurare come pastori sull’esempio del Pastore bello, possiamo anche addebitare a noi, come proposito e missione, le parole che Egli ha detto di se stesso: “Io sono nel mondo perché, quanti sono con me e accanto a me, abbiano vita”. Solo così siamo pastori dell’essere.

 don Renzo – Ivrea, 22 aprile 2018