LEZIONE DI VITA CON IL REGISTA PUPI AVATI

“Credete nei vostri sogni !” è l’invito del  grande Maestro ai tanti giovani convenuti per l’incontro del 5 maggio al Sermig

VALERIA TUBEROSI, 07.05.2015                       FOTOGALLERY

TORINO – Simpatia irriverente, carisma dialettico, fervida immaginazione e sguardo nostalgico e profondo di chi la sua vita l’ha vissuta e la vive appieno. Questo è tutto ciò che traspare dalle parole schiette, mai banali, dello straordinario regista e sceneggiatore Pupi Avati, intervistato da Matteo Spicuglia e Monica Canalis, nell’incontro di chiusura dell’affascinante programma culturale di Ernesto Olivero “Ognuno ha l’età dei suoi sogni”.

Lo sceneggiatore, cresciuto in una Bologna ancora provinciale e contadina degli anni ’40,  ripercorrendo quelli che sono stati i momenti e gli episodi cruciali di un’intera esperienza artistica e non solo, con parole semplici e dirette è riuscito a dare una vera e propria lezione di vita soprattutto ai tanti giovani accorsi.

«Coltivare sogni, vivere nell’illusione che qualcosa di eccezionale possa capitare proprio a te è l’unico modo per vivere davvero». Nelle parole di Giuseppe Avati, in arte Pupi, il consiglio, forse più prezioso di tutti: quello di vivere credendo ardentemente che il meglio debba ancora venire. Di ambizione ne aveva parecchia il grande sceneggiatore, che fin da giovanissimo ha seguito quelle che sono state le sue più grande passioni: il jazz ed il cinema. All’epoca era uno dei migliori clarinettisti di Bologna, suonava in una band di giovani universitari, la “Doctor Dixie Jazz Band”. Credeva di aver trovato la sua strada nella musica, quando l’arrivo di Lucio Dalla nel gruppo fece cambiare improvvisamente rotta alla sua carriera. «Una sera in tournée a Francoforte sentii suonare Lucio, e fu in quel momento che capii l’insegnamento più importante: la grande, enorme differenza tra ciò che è passione e talento. L’eccezionale Lucio era destinato alla musica, aveva talento; se io avessi insistito con il jazz, non avrei detto e non avrei dato nulla di me, come chi per 40 anni della propria vita decide di fare un mestiere che non sente».

Prima di diventare il regista di rilievo che tutti conosciamo, vincitore del David di Donatello per film come “Il cuore altrove”, e “Storia di ragazzi e ragazze”, o punta di diamante nel genere giallo-horror degli anni ’70, ha dovuto in qualche modo trovar la propria strada, destreggiandosi tra quelli che sono stati altri mestieri, dal giornalista, allo studente di veterinaria, al rappresentante per una nota marca di surgelati. Tutto è cambiato con la visione del capolavoro cinematografico “Otto e mezzo” di Federico Fellini, in onore del quale, tra l’altro, il regista bolognese ora presiede la Fondazione in suo nome. Il film del pluripremiato regista romagnolo ispirò talmente tanto il giovane Pupi da risvegliare in lui il desiderio di iniziare a far cinema. Con la collaborazione di un gruppo di artisti alle prime armi ed il sostegno economico di un misterioso ed eclettico imprenditore, riuscì, quindi, a realizzare quello che è stato solo il primo di una lunga serie di film: si chiamava “Balsamus: l’uomo di Satana”, ed era ambientato, come molti altri d’altronde, nella sua Emilia Romagna. La grande immaginazione, che racconta d’aver avuto fin da bambino, la personalità timida e forse fuori dal comune, l’hanno reso protagonista di grandi cult del genere come “La casa dalle finestre che ridono”.

Proprio questa inadeguatezza di fondo e la derivante difficoltà nel comunicare ciò che era la sua personalità diventano gli elementi caratterizzanti delle sue meravigliose espressioni artistiche: persone normali, con i propri limiti e le proprie paure , raccontate attraverso gli occhi di chi ha visto già quanto sia complicato farsi strada nella vita. Protagonisti mai completamente appagati sono i personaggi raccontati, per esempio, in due tra i suoi film più recenti: “Un ragazzo d’oro” con Riccardo Scamarcio e Sharon Stone, vincitore nel 2014 del premio come miglior sceneggiatura alla 38° edizione del “Montreal World Film Festival” in Canada , e “Ma quando arrivano le ragazze?” (2005), racconto, forse autobiografico, di un’incompleta carriera musicale.

Da questa incredibile “umanità”, fatta di limiti e sconfitte, deriva un grande spessore umano e morale che si manifesta nelle parole del regista, ancora vicino alla sua Bologna contadina, ad una “società del fare” così diversa da quella di oggi dedita solo al commentare, al criticare, e al giudicare il prossimo. Spessore trasmessogli sicuramente da una madre molto religiosa e con una sconfinata fede nella Provvidenza, che ha saputo insegnargli a trarre sempre il bene anche dalle situazioni più complicate. «Al giorno d’oggi è difficile essere una persona di fede, – spiega il regista – chi crede vien quasi guardato con affettuoso compatimento, e considerato un emarginato della società moderna, eppure è proprio nell’isolamento che si crea l’identità. Io rimetto in discussione la mia fede tutti i giorni, e tutti i giorni mi ripeto che Dio c’è: per tutta l’ingiustizia che vedo nel mondo, ho necessità di credere che un Dio esista».  Questo immenso credo è lo stesso che spinge Pupi Avati a sperare nella riconciliazione del matrimonio, messa così in discussione dalla nostra società sempre più povera di valori. Legato da più di 50 anni alla stessa donna, di cui parla come se l’avesse vista ieri per la prima volta, consiglia a tutti di avere sempre il coraggio di riprovarci, per arrivare all’ultima parte di vita non completamente soli.

Proprio della vita, attraverso le sue tappe principali, i suoi aneddoti e le esperienze personali, metaforicamente parla come di un ellisse o di una collina, in cui da ingenui e speranzosi nel “per sempre” si passa alla fase dell’apprendimento diventando razionali e “professionali”, quindi raggiunta l’apice si inizia a scollinare nel disapprendi mento perdendo lucidità e agilità fisica, per ritornare ad essere sensibili e fragili come bambini con la nostalgia di quell’infanzia incline al “per sempre”. In tutto questo percorso fatto di sogni, di progetti e di sconfitte, si ricomincia ad essere ciò che si era al principio: bambino. «Non c’è parola più bella di questa – dice Pupi – oggi tutto mi sorprende, godo di tutto, soffro di tutto, di tutto vivo». E viene proprio voglia di viverla una vita anche solo lontanamente simile a quella del grande regista Pupi Avati.

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Fotogallery di Carlo Cretella

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