QUANDO SUONO’ LA CAMPANA: WILLY JERVIS (1901-1944)

Aneddoti, lettere e testimonianze delineano un ritratto inconsueto del noto ingegnere valdese che operò per la Resistenza e la Liberazione dal nazi-fascismo, in particolare nel Canavese e nel Torinese

La  fede religiosa gli fu compagna di conforto e di forza durante la prigionia

AGOSTO 2006

GABRIELLA OLDANO

«Dio vi benedica e vi guardi. Ci rivedremo lassù» sono parole di conforto, d’amore e di fede che l’ingegnere e partigiano Willy Jervis, lasciò incise, il 5 agosto 1944, per sua moglie Lucilla, sulle pagine della Bibbia – per lui divenuta tanto preziosa ed unico oggetto di lettura –, poco prima della fucilazione da parte dei nazifascisti a Villar Pellice, tra le maestose valli montane della Val Pellice.

Egli, insieme ad altri suoi compagni, venne ucciso, trucidato ed impiccato in piazza del paese, proprio in quella valle, in cui da giovane soleva recarsi per trascorrere le vacanze, a quel tempo invece divenuta, come altri territori limitrofi del comprensorio torinese, uno scenario in cui operava clandestinamente la Resistenza per la Liberazione Nazionale.

Lorenzo Tibaldo nel suo libro “Quando suonò la campana: Willy Jervis (1901-1944)” (Claudiana Editrice, Torino  2005, pp.126), mette in luce la figura del giovane ingegnere permeata da una fede evangelica.

Con una narrazione semplice in cui si intercalano testimonianze ed aneddoti, l’autore spiega che quella fede cristiana, che si rivelò per Willy «una componente importante della sua vita» per poter accettare quel destino fatale, fu da lui ereditata in primis dall’ambiente familiare dei genitori valdesi; successivamente contribuì alla sua maturazione spirituale la devozione religiosa della moglie Lucinda Rochat, di origine svizzera, anche lei valdese, e il periodo di sofferenza e di solitudine in cui Willy trascorse gli ultimi giorni della sua vita nell’angusta cella delle Carceri Nuove di Torino, come testimoniano gli stralci del carteggio tra Willy e la moglie durante il periodo di prigionia.

Uomo pratico ed esigente verso se stesso e gli altri con quel rigore morale che lo contraddistinse nella dedizione alla famiglia e nell’impegno al lavoro, come pure nella sua scelta di aderire in modo attivo alla lotta partigiana. Grazie alla sua conoscenza delle lingue e alla sua abilità di alpinista, dal 1943 accompagnò gli ebrei e i militari inglesi ed americani evasi dai campi di concentramento italiani e li mise in salvo oltre le Alpi Svizzere, svolgendo imprese spionistiche per gli alleati, facendo spola tra il Piemonte e la Svizzera.

Ivrea fu per lui non solo luogo di residenza, ma di lavoro presso lo stabilimento di macchine per scrivere “Olivetti” e di iniziative antifasciste. Con Arturo Canetta, segretario di Adriano Olivetti, Willy aderì al Partito d’Azione, e con altri amici di lavoro e di lotta organizzò il volantinaggio e la costituzione di un Comitato di Liberazione Nazionale. Molte delle attività avvenivano proprio in fabbrica grazie all’aiuto di Camillo ed Adriano Olivetti. «Non impugna le armi ma è un’instancabile organizzatore», commenta un amico di Willy, Giorgio Agosti. Willy infatti si prodigava nella distribuzione dei giornali clandestini e nella pianificazione dei piani operativi.

Egli che desiderava «una vita senza armi, né guerre», come espresse al pastore valdese Guido Rivoir durante una sua missione in Svizzera, sentì la necessità di agire per difendere la pace e la libertà; lo sentì come un dovere attingendo sia ai movimenti d’azione torinesi e sia al pensiero filosofico del teologo protestante antinazista Karl Barth che spronava la chiesa confessante tedesca ad una precisa presa di coscienza sul piano politico.