UNA “SANTA IMPRESA” PUÓ CAMBIARE IL MONDO

Laura Curino fa rivivere i Santi sociali della Torino ottocentesca con una varietà di emozioni e riflessioni più che mai attuali

Davide Ghezzo. 02.06.2015                 FOTOGALLERY 

TORINOCorre quest’anno il secondo centenario della nascita di don Bosco, campione dei santi sociali torinesi e piemontesi, e si tratta di una ricorrenza su cui la Chiesa punta molto per rilanciare la propria presenza e importanza nella società secolarizzata. Non a caso Papa Bergoglio sarà presto a Torino sì per l’ostensione della Sindone, ma anche per ricordare il grande santo facendo visita alla Chiesa di Santa Maria Ausiliatrice e all’oratorio Valdocco, ovvero quelle che furono le sedi d’elezione di san Giovanni Bosco.

Un ricordo della sua figura, e di quella degli altri protagonisti di una stagione forse irripetibile sul piano del collegamento tra la socialità e la religiosità di fondo, viene elaborato da Laura Curino nello splendido monologo teatrale “Santa Impresa, presentato in prima assoluta al Teatro Gobetti di Torino e replicato dal 19 maggio al 7 giugno.

Laura Curino è ormai una figura di spicco del teatro italiano, in capo a una carriera che l’ha portata da protagonista sui più prestigiosi palcoscenici italiani ed europei, e grazie a un talento poliedrico che le permette di esprimersi non solo come primattrice, ma anche nei ruoli altrettanto delicati della regia e della stesura di testi drammaturgici. Il suo lavoro si è sempre rivolto a un rinnovamento dei moduli tradizionali dello spettacolo teatrale, fin dalla fondazione dello storico Laboratorio Teatro Settimo, cui è seguita una lunga collaborazione col regista Gabriele Vacis, culminata probabilmente nelle opere dedicate ad Adriano Olivetti e in genere alla storia della famiglia eporediese, che ha segnato uno spartiacque nello sviluppo industriale del nostro paese. Dopo tali produzioni, apparse verso la fine del secolo scorso, la Curino si è rivolta a una varietà di nuove esperienze sceniche, tra cui spicca la collaborazione con ‘Anagoor’, ovvero un gruppo di giovani teatranti di origine veneta che le danno un supporto non solo tecnico e scenografico ma anche di scrittura e di idee.

In “Santa Impresa, Laura Curino domina la scena e cattura un’attenzione totale nel pubblico grazie soprattutto alla sapiente alternanza di toni e registri. In particolare funziona benissimo lo scorrimento formale tra scambi di battute pseudodialogate e riflessione sociologica spicciola, giocata sul filo dell’ironia e dell’amara consapevolezza di quanto fosse distorta e ingiusta la mescolanza sociale che si andava creando nella Torino di metà Ottocento all’incirca.

Poi naturalmente per il felice esito del prodotto artistico conta moltissimo l’argomento, che non ha nulla della vacuità di una qualsivoglia commedia ‘leggera’ ma anzi scava proprio nelle contraddizioni della borghesia dell’epoca,  di qualunque epoca probabilmente. Vale la pena allora di ripercorrere, in una breve carrellata, la vicenda dei santi sociali, un pugno di valorosi, torinesi e piemontesi, che seppero rovesciare come un calzino la situazione sociale della città.

Se ci atteniamo a un minimo di cronologia, tutto ha origine con una donna, Giulia Falletti marchesa di Barolo, nata nel 1785 in Vandea, ascendenza che pagò duramente in quanto la sua famiglia, di stretta osservanza cattolica, fu sterminata dai rivoluzionari francesi nella soppressione della rivolta vandeana. A Torino dal 1814col marito Tancredi si dedicò con una profusione totale di energie e di denaro alla beneficenza soprattutto verso le carcerate della città, che sottrasse da una condizione priva di qualsiasi dignità. Morì a Torino nel 1864

Onorata prioritariamente la figura femminile, segue la lista di intrepidi uomini e sacerdoti, poi beatificati e canonizzati.

Il primo è Giuseppe Cottolengo, nato a Bra nel 1786, fondatore nel 1832 della Piccola Casa della Divina Provvidenza – oggi, per antonomasia, il Cottolengo -, in cui trovavano ricovero i malati di colera che nessuno voleva ospitare per timore del contagio, e in seguito i reietti per deformità o altri gravi problemi fisiologici. Morì di tifo nel 1842.

Troviamo poi Giuseppe Cafasso, nato nel 1811 a Castelnuovo d’Asti – oggi Castelnuovo Don Bosco – da famiglia contadina originaria dell’Irpinia. Dopo il seminario a Chieri, diventa prete a 22 anni, e viene chiamato alla predicazione nonostante la voce flebile. Consigliere di don Bosco, sarà chiamato ‘il prete della forca’, in quanto accompagnatore di decine di condannati a morte, dalla dura giustizia savoiarda, fino allo spiazzo ancor oggi tristemente noto come il ‘rondò della forca’,nel cuore popolare di Torino.

La figura più celebre, non a torto, è quella di Giovanni Bosco, anch’egli originario di Castelnuovo d’Asti, dove nacque nel 1815. Fondatore dei Salesiani e delle Figlie di Maria Ausiliatrice, legate allo storico Santuario di cui pose la prima pietra nel 1864, missionario in Argentina, è fondatore di una specifica pedagogia basata su ragione, religione e amorevolezza. Difensore in prima persona dei carcerati e delle categorie di lavoratori più povere e sfruttate, tanto da scontrarsi duramente con le istituzioni e il padronato delle industrie nascenti, morì nel 1888.

Segue il Venerabile Francesco Faà di Bruno, nato ad Alessandria nel 1825. Figura eclettica, musicista e fervente patriota, fu dedito dapprima alla carriera militare, poi a quella scientifica; fu ordinato sacerdote a 51 anni. Nell’Opera di Santa Zita (oggi sede parrocchiale e anche di Liceo) diede ospitalità a donne povere e in particolare a ragazze madri. Morì nello stesso anno dell’amico Don Bosco.

Infine del 1828 è poi il torinesissimo Leonardo Murialdo, nato in Via Dora Grossa ovvero l’odierna Via Garibaldi, che nel corso della collaborazione con Bosco e dell’opera instancabile a favore degli abitanti della periferia torinese ebbe per primo l’intuizione di creare strutture analoghe alle moderne case-famiglia; tra enormi difficoltà economiche resse fino alla morte, avvenuta nel 1900, il Collegio degli Artigianelli (fondato nel 1849 da don Luigi Cocchi), destinato a ragazzi poveri e abbandonati.

Al di là di questi personaggi, di cui Laura Curino segue le vicende nei risvolti anche personali, nella difficoltà di intraprendere qualunque attività caritatevole in mezzo al coro dei ‘benpensanti’, si snoda la scena della città, ripresa anche con l’aiuto di una serie di video. Scorrono le immagini dei luoghi deputati alla carità, come l’oratorio Valdocco, e dei semplici oggetti che la sostanziano, come un pallone da calcio, ma anche scene in ‘esterna’ che richiamano l’estrema povertà e umiltà dei più deboli, collocati soprattutto nei dintorni di Porta Palazzo, storico borgo e mercato che ancor oggi è luogo d’elezione delle classi popolari, nonché dei nuclei di immigrati provenienti dalle più diverse etnie.

Su tali sfondi Laura Curino ricama commenti di una poesia spesso aspra o amara, aiutandosi con una scenografia essenziale: una scala su cui salire per avvicinarsi allo schermo, un tavolo su cui deporre dei pani. Simboli di una partecipazione sobria ma proprio per questo forte e sentita. Testo e scena sono poi divisi in ‘sette giorni’, a richiamare le gesta della creazione biblica, di cui l’azione dei santi sociali suona come degno epigono, giacché creatività non significa solo il beau geste di un direttore d’orchestra o una pennellata luminosa, ma è concetto che si applica anche alle relazioni umane e in specie a quelle tra chi è ricco e dotato e chi non possiede praticamente nulla

Dunque “Santa Impresa”, frutto di un lavoro di ricerca e costruzione durato oltre un anno, offre a un pubblico sensibile una varietà di emozioni e riflessioni di attualità stringente, e suona anche come monito ai moderni capitani d’industria, chiamati a coniugare le esigenze del capitalismo odierno con quelle eterne della solidarietà e della compassione. Auspichiamo che la pièce di Laura Curino trovi le piazze e gli ascoltatori che merita – al di là dell’elegante teatro Gobetti – per esempio, perché no, il Papa argentino di origine piemontese…

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Fotogallery di Carlo Cretella

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