Domenica 28 febbraio 2016 – III di Quaresima

DIO NON CASTIGA (Lc 13,1-9)

DON RENZO GAMERRO

Il testo di Luca racconta due fatti di cronaca, il giudizio di Gesù sulla reazione ai fatti e la parabola del fico.

L’eccidio commesso da Pilato, con probabilità, si riferisce ad una sua decisione di uccidere un gruppo di zeloti galileani che avevano messo in atto una sommossa contro la dominazione romana. Il fatto è avvenuto nel tempio, dove Pilato “ha fatto scorrere il sangue degli uccisi assieme a quello dei sacrifici”.

Il crollo della torre di Siloe è una disgrazia e può far riferimento alla distruzione di Gerusalemme dell’anno 70. La vita di queste persone e la loro storia interpellano il Rabbi che annuncia la buona novella.

Allora come oggi, le persone che hanno assistito ai fatti hanno reagito con giudizi e presa di posizione.

Il giudizio di Gesù a riguardo dei due fatti è tranciante: “Credete voi, che quelle persone uccise o che hanno perso la vita per la disgrazia, fossero più peccatori di tutti i Galilei o degli abitanti di Gerusalemme?: No, vi dico, ma se non vi convertirete, perirete tutti allo stesso modo”.

Il giudizio di Gesù vale per quanti hanno assistito ai fatti, allora come oggi, e le Sue parole fanno parte dell’Evangelo. In quelle parole di fatto viene detto che Dio non castiga e non retribuisce le colpe con supplizi e sciagure. Anche oggi, in alcuni credenti, è diffusa l’opinione che Dio castiga le colpe commesse in questa nostra storia. Il Dio di Gesù Cristo è il Dio della misericordia, che tutto e tutti perdona.

Di fronte a supplizi e sciagure non basta rimanere spettatori, occorre entrare nella dinamica degli eventi con responsabilità. E’ certamente riprovevole chi guarda e poi si fa da parte, come se quella realtà non lo riguardasse. E’ una pigrizia che, di fatto, alimenta altre possibilità di male, perché non immette nel contesto una reazione che inventi una controproposta valida.

Gesù con molta decisione dice a tutti “convertitevi!”. Convertirsi significa indirizzare “oltre” il giudizio e l’azione, cioè collocare una scelta di bene nell’evento capitato. Il dolore altrui è un appello etico, una provocazione della nostra libertà e una chiamata alla responsabilità. Occorre che ciascun uomo responsabile interpreti il fatto, sia creativo di fronte ad esso, inventi e immetta un bene “oltre” il male. Solo così il male è vinto, quando cioè è fatto proprio e reso innocuo dal bene voluto e intrapreso.

Perché questo avvenga occorre maturare, nella propria coscienza, almeno due dei sei atteggiamenti del cristiano richiamati da Paolo nella sua lettera ai Corinzi. Il primo atteggiamento è l’audacia. Il cristiano deve guardare la storia, scrutarne i segni per abitare il suo tempo e agire appunto, con audacia, quell’attitudine ad affrontare la realtà confidando in se stessi e nella benevola azione di Dio, per superare le difficoltà incontrate. La vita sociale è uno spazio di fraternità e dignità.

Il secondo atteggiamento è “saper sperare”, cioè compiere pensieri, giudizi, decisioni e azioni capaci di provocare benefiche conseguenze sociali, investendo tutta la creatività e la forza delle proprie decisioni e azioni e ancora investendo il dono di un Dio che, con il suo amore, “fa si che io faccia e pertanto che io faccia con Lui storia di salvezza.