IL DENARO NELLA CHIESA: IL FINE O UN MEZZO?

don Giuliano ALBERTINELLI, del clero di Aosta

La domanda posta nel titolo di questo breve articolo, sicuramente un po’ provocatoria ma più che mai attuale, riguarda ogni fedele, sia esso chierico o laico, e ancor più importante è la risposta data a tale quesito.

Essendo io sacerdote e parroco di tre comunità parrocchiali la prospettiva da cui scrivo è per l’appunto quella del parroco il quale deve essere per le sue comunità un buon pastore, che include quella sollecitudine del buon padre di famiglia che non può trascendere da un’evangelica e corretta amministrazione dei beni materiali

appartenenti alle parrocchie (di cui fanno parte le offerte in denaro fatte dai fedeli).

Ritengo sia opportuno contestualizzare l’oggetto denaro non potendolo ritenere un male in se stesso, basti ricordare come anche Gesù  con i suoi discepoli avessero una cassa in comune per far fronte al loro ministero[1]

Quindi si può affermare che il denaro non è un male in se stesso, anzi se usato nel modo corretto può avere una grande utilità in quanto la Chiesa non ha soltanto una struttura intima, spirituale, quale Corpo Mistico di Cristo, ma anche una struttura esterna, visibile, sociale, che ha bisogno anche di adeguati mezzi economici2.

Da quanto sopra detto si può capire immediatamente, se mai ci fossero stati dubbi in questione, che il denaro deve essere sempre e solo un mezzo e mai il fine per un credente. Il fine ultimo della Chiesa è ben esposto nell’ultimo canone del codice di diritto canonico, il quale ci ricorda che la “salus animarum in Ecclesia suprema semper lex esse debet” (can. 1752, la salvezza delle anime deve essere nella Chiesa la legge suprema). Fine che ha la sua sorgente e culmine nel Cristo Risorto, solo nella sequela ed accoglienza di Cristo e della Sua Parola  è possibile raggiungere per l’appunto il fine ultimo della Santa Chiesa, espressione incarnata dell’amore di Dio Padre in Cristo Gesù, vivificata e resa Santa dalla presenta dello Spirito Santo. 

Come ci ricorda il codice nel libro V sui beni temporali  la Chiesa cattolica ha il diritto di possedere beni temporali, diritto che trova la sua ragion d’essere nel conseguimento dei fini che le sono propri[2]. I fini propri, che ricordo essere al servizio del fine ultimo che è la salvezza delle anime, sono l’esercizio delle opere di apostolato e di carità, specialmente a favore dei poveri; l’organizzazione del culto divino, che comprende anche la costruzione e manutenzione dei luoghi di culto; il dignitoso sostentamento del clero e delle altre persone, che dedicano la loro vita a servizio dei fratelli nella Chiesa[3]

Nel momento in cui i beni temporali e il denaro non sono più considerati nell’ottica di mezzi per raggiungere il fine proprio della Chiesa e diventano loro stessi il fine di ogni nostra scelta ci ritroviamo a perdere quella libertà propria dei Figli di Dio, donataci da Cristo con la Sua morte e risurrezione, per ritrovarci servi dell’idolo denaro che disumanizza la natura umana e ogni nostra relazione.

Ritengo essere necessario, in modo particolare per noi sacerdoti, che siamo chiamati ad amministrare i beni temporali delle nostre comunità, a grande prudenza e trasparenza. Potrebbe esserci la tentazione, motivata anche da ragioni razionalmente corrette, di concentrare gran parte del nostro ministero a cercare denaro per la realizzazione di opere corrispondenti anche a quelli che sono fini utili, al rifacimento della chiesa o casa parrocchiale, dell’oratorio per i giovani ecc, con il rischio di dimenticare che in Signore ci ha scelti nel ministero ordinato non per fare gli impresari, ma per essere pastori secondo il cuore di Dio, dediti alla preghiera e al servizio dei fratelli. E ritengo che un aiuto che ci ricorda che dobbiamo essere pastori ci viene dal canone 1284 §2 ai numeri 7 e 8, in cui si ricorda il dovere di tenere bene in ordine i libri delle entrate e uscite (n°7) e di redigere il rendiconto amministrativo al termine di ogni anno (n°8). Prima che un dovere statuito dal codice di diritto penso sia un dovere morale, è indispensabile per una trasparente e corretta gestione dei beni delle nostre parrocchie[4], e di tutta la Chiesa, rendere conto ai nostri fedeli di come utilizziamo il denaro che ci consegnano. Sono convinto, che senza trasparenza e correttezza da parte nostra a livello di gestione economica di quanto ci viene affidato, ne vada della nostra credibilità nei confronti dei nostri fedeli arrecando loro e alla Chiesa un grande danno.

                                               

[1] Gv 13, 29 “ … alcuni infatti pensavano che, poiché Giuda teneva la cassa, Gesù gli avesse detto:« Compra quello che ci occorre per la festa», oppure che dovesse dare qualche cosa ai poveri”.2 Cfr. LG 8, Chiesa realtà visibile e spirituale.

[2] Cfr. canone 1254 §1.

[3] Cfr. canone 1254 §2.

[4] Quanto detto per la necessità, che ritengo inderogabile, di presentare alle proprie comunità, sia esse parrocchiali diocesane-religiose, un bilancio che non si limiti a indicare entrate/uscite con macrovoci (che possono dire tutto e nulla) ma che sia il più dettagliato possibile, lo sottolineo anche per la necessaria presenza in ogni parrocchia-diocesi dei consigli affari economici (cfr. canoni 492§1, 537) che rendono partecipi i laici della corretta e trasparente amministrazione dei beni temporali della Chiesa.