PRIMO LEVI VIVE E PARLA NELLE SUE OPERE

Lo scrittore, il testimone e l’uomo nel corpus rivisto da Belpolito

Fabrizio Prelini, 27.01.2016

TORINO – “Non ci sono tanti scrittori la cui opera va avanti indipendentemente da loro: perché? Perché Primo Levi ha tentato di leggere la contemporaneità, quello che gli era accaduto, in modo progressivo, non ideologico, non unitario, poliedrico, e che quindi continua a muoversi”: con questa riflessione dello storico e critico letterario Marco Belpoliti si può riassumere lo spirito della nuova edizione di Opere (Einaudi 2017, 3392 pagine, 160€), da lui stesso curata e presentata al Circolo dei Lettori il 25 gennaio scorso.

Un giudizio che trova riscontro nella notevole affluenza ottenuta dall’evento: a quasi trent’anni esatti dalla tragica scomparsa dell’autore torinese, almeno una quindicina di presenti sono costretti a restare in piedi nella gremitissima sala Grande del Circolo.

Oltre a Belpoliti sono presenti gli storici e docenti universitari Anna Bravo e Alberto Cavaglion a condividere i loro pensieri con il variegato pubblico, mentre il ruolo di moderatore spetta all’attuale presidente della Einaudi Walter Barberis, anch’egli formatosi nel campo degli studi storici e sociali fra Torino e Parigi.

Proprio Barberis introduce l’incontro ripercorrendo la tortuosa vicenda editoriale di Se questo è un uomo, rimarcando il disinteresse delle case editrici dell’epoca (prima fra tutte la stessa Einaudi), che porta il libro ad essere pubblicato, nel 1947, dalla De Silva di Franco Antonicelli, e in sole 2500 copie. È di questa prima versione, rivista da Levi in occasione della pubblicazione da parte di Einaudi nel 1958, che Opere presenta al pubblico la prima ristampa anastatica in assoluto.

Le peripezie dell’esordio bibliografico di Levi si inseriscono infatti in un contesto culturale molto diverso da quello attuale, in cui la memoria della Shoah trova ancora poco spazio; di fatto, solo negli anni ’70 le testimonianze dei reduci ampliano il campo degli studi su questi eventi così traumatici. Lo stesso Levi, nella sua doppia natura di testimone e scrittore, si impone come figura singolarmente complessa, e proprio da questo, secondo Barberis, possiamo ottenere una nuova prospettiva in grado di avvicinare storici e critici letterari: “Noi potremmo essere stati aiutati da un Primo Levi scrittore– commenta il presidente dell’Einaudi- esattamente nella stessa misura in cui la sua scrittura ha, per così dire, levigato la sua testimonianza”.

La parola passa poi ad Anna Bravo, figura di spicco nella storiografia della deportazione e della Resistenza, che analizza la teoria della “zona grigia”, introdotta da Levi nelle sue memorie di Auschwitz e poi approfondita nella sua ultima opera, I sommersi e i salvati (1986).

La complessità dei rapporti umani all’interno dell’universo concentrazionario, dove è di fatto impossibile tracciare una netta linea di demarcazione tra vittime e aguzzini, tra giusti e corrotti, tra uomini e belve, è la base di un’idea tanto universale e attuale nel nostro modo di pensare quanto rivoluzionaria e sconvolgente all’epoca.

Le difficili implicazioni di tale deduzione rendono la testimonianza di Levi ancora più marginalizzata in quella cultura della Resistenza che rifiuta di soffermarsi sulla Shoah: la “zona grigia” ci costringe infatti a fare i conti con le atrocità commesse dai partigiani, a non bollare sommariamente ogni collaborazionista come traditore, ma ad approfondire caso per caso il tema della responsabilità personale. In questo senso, conclude Bravo, Primo Levi ha mostrato il coraggio che è invece mancato a quella sinistra che, nella ricerca di identità e riscatto nazionali nella Resistenza, ha preferito dimenticare per lunghi anni che “il male fatto dai giusti pesa uguale (…) sulle sue vittime e su chi lo attua”. La versatilità che avvalora ulteriormente la deduzione dello scrittore e chimico torinese trova un sorprendente esempio nell’opera di una storica americana citata da Bravo che, nel descrivere il ruolo delle mogli dei piantatori nell’America schiavista, parla di “area grigia”.

L’unica certezza, secondo me, è che non è esistito solo un Primo Levi dichiara Alberto Cavaglion– ma sono esistite diverse fasi, fra loro anche contrastanti: una premessa fondamentale per comprendere non solo la poliedricità della figura in questione, riconsegnataci in chiave cronologica da questa nuova opera omnia, ma anche per valutare il tortuoso rapporto della critica con tale produzione. Basta rileggere la prima versione di Se questo è un uomo, dove è assente il tema della chimica che rappresenta quell’immagine di “scrittore scienziato” che l’autore avrebbe costruito in seguito, per trovare una dimostrazione lampante di questo dinamismo identitario.

Cavaglion non risparmia bacchettate alla critica, colpevole di avere ignorato Levi in vita per poi quasi compensare, alla luce della “riscoperta delle leggi razziali” del 1988, con tre edizioni di opere integrali nel giro di vent’anni, passando goffamente da un eccesso all’altro senza avvicinarsi a una comprensione più profonda della sua figura ma rischiando, per contro, una banalizzazione del suo testamento letterario e del suo ruolo di sopravvissuto e testimone.

Chiude l’incontro Marco Belpoliti, che mette l’accento sull’”enorme onestà intellettuale” di Levi, portandone come esempio la sua disponibilità a tagliare dall’edizione tedesca di Se questo è un uomo i rifermenti ai prigionieri politici nei Lager, inaccettabili per “l’antifascismo monumentale” della DDR, talmente è forte il suo bisogno di raccontare, di riferire, di condividere (non a caso una delle appendici del libro è dedicata proprio agli scambi epistolari dell’autore con vari lettori tedeschi, mentre l’esperienza estenuante della traduzione in tedesco del volume viene ricordata ne I sommersi e i salvati).

Belpoliti riprende e conferma anche la dicotomia menzionata da Barberis e, parlando delle due diverse versioni di Se questo è un uomo, osserva come sia possibile notare in entrambe che “la letteratura dà forza alla sua testimonianza”; la sfortuna critica di Levi, l’incomprensione, la sua solitudine più volte citata dagli interlocutori della serata sono il prezzo pagato in prima persona da un uomo unico anche nel suo modo di essere controcorrente – come scrittore, come pensatore, persino come ebreo.

Il mio grande timore oggi è che si faccia della filologia sulle opere di Primo Levi dimenticando che è stato ad Auschwitz” è l’interessante spunto di riflessione offerto dal critico bolognese per mettere in primo piano la necessità di non separare il testimone dallo scrittore, questione complicata ulteriormente dal continuo reinventarsi di quest’ultimo – ben sintetizzato dal pensiero di Italo Calvino che Belpoliti condivide con il pubblico: “la prima grande invenzione dello scrittore è inventare sé stesso come scrittore”.

Ripercorrere la produzione letteraria di Primo Levi, non solo nei suoi capitoli autobiografici, significa dunque rivisitare l’identità perennemente in divenire dell’uomo dietro alle parole: in questo senso il corposo doppio volume presentato in questa sede non è un’aggiunta pleonastica alla bibliografia leviana, ma espressione di “un’opera in fieri, che non si ferma”.

Opere si aggiunge così come prezioso strumento, così che il fervore di queste idee possa continuare a ispirare il pensiero di generazioni presenti e future. Perché la straordinaria attualità dell’autore torinese vive e respira attraverso le sue parole, che a distanza di anni riecheggiano forti non solo nell’affollata sala di Via Bogino, ma anche durante la Giornata della Memoria, con tono imponente e profondo, quasi glaciale.