FARSI PANE

Nel tratto del Vangelo letto, Gv. 6, 51-58, Gesù propone se stesso come cibo per la folla con tre affermazioni: “Io sono il pane vivo disceso dal cielo… Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno… Il pane che io darò, è la mia carne per la vita del mondo”.

Queste tre affermazioni provocano discussione tra i giudei e la domanda: “Come può Costui darci la sua carne da mangiare?”. Domanda che ne sottende un’altra: “Come può questo Rabbi itinerante, figlio di Maria e di Giuseppe, di professione carpentiere, dire di se stesso: io sono pane di vita per voi? E questa mia vita fatta pane è donata fino al versamento del sangue perché tutti abbiano vita in abbondanza?”. Domanda che anche noi intriga e sta al cuore della fede e della sequela richiesta da Gesù ai suoi discepoli.

Lasciamo nella mente la domanda con il suo interrogativo sospeso e raccontiamo a noi stessi come le tre affermazioni hanno preso forma nella Cena del giovedì coi suoi discepoli, la sera dell’agonia e del tradimento, del processo e della condanna.

Così racconta la Preghiera Eucaristica n. 2, ispirata alla Tradizione Apostolica di Ippolito (III° sec.), che diciamo nella messa di questo giorno. Egli, il Rabbi Gesù, offrendosi liberamente alla sua passione, prese il pane, il pane che era sul tavolo; rese grazie, invocando la benedizione cioè collocando quel pane sotto l’atto benedicente di Dio creatore che continuamente alimenta la fertilità della terra e la capacità lavorativa dell’uomo.

Poi quel pane lo spezzò, lo sbocconcellò e lo diede loro, perché tutti i commensali di quel pane avessero parte sì da formare, accogliendolo, di se stessi un pane.

E disse: “Prendete e mangiatene tutti, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi: questo pane è «tutto il mio io» fatto pane, la mia storia fatta pane, la mia parola, il mio amare, la mia azione fatta pane, il mio offrirmi alla morte. In questa cena mi faccio pane, perché ne mangiate e vi facciate pane”.

E allo stesso modo prese il calice, rese grazie, lo diede loro dicendo: “Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna Alleanza”.

Quella stessa sera aveva pregato nell’orto: “Padre mio, se è possibile passi via da me questo calice…” Mt. 26,39. Nella Cena lo sconforto e la prova sono ormai superati.

Nel porgere il calice pieno di vino ai commensali perché ne bevano, si realizza l’Alleanza e quanto aveva già detto: “Non c’è amore più grande che dar la vita per chi si ama”.

Nel gesto del pane e del vino donati, quella sera e poi l’indomani sulla Croce, tutto è compiuto. “Fate questo in memoria di me!”

Gesù si è fatto pane perché ci facciamo pane. La comunità che accoglie Gesù e si fa pane per gli altri è il Corpo del Signore: “Voi siete corpo di Cristo. (1. Cor.12,27; Ef. 4,12) Perché c’è un solo pane: noi, pur essendo molti siamo un corpo solo. Tutti infatti partecipiamo dell’unico pane”. (1 Cor. 10,16-17; 11,27)

Mangiare questo pane e bere quel calice è la più significativa unione simbolica con Cristo risorto vivente in mezzo a noi: il cuore dell’evento cristiano vissuto.

Questa conoscenza e questa presa di coscienza è nel nostro cuore e nella nostra anima fin da quando, bambini, abbiamo celebrato la prima comunione. Ed è stato quel giorno, festa partecipata per l’intero paese.

In questi anni vissuti di fretta, siamo corsi così avanti con pensieri ed azioni, che ora dobbiamo sostare per consentire alle nostre anime di raggiungerci e ritrovare il nostro farsi pane.

Corpus Domini, 18 giugno 2017