LA BONTA’ NON SI PUO’ MISURARE

Da millenni l’uomo misura le realtà che incontra nel suo cammino. Misura il terreno su cui abita, l’altezza della sua persona, i giorni del suo vivere, il lavoro e lo svago… Quando si misura una realtà, ce ne si impadronisce nel bene e nel male.

La misura, per lo più, è associata al tempo: si misurano, con l’indice del tempo, le stagioni e le età, le prestazioni, la maturazione dei frutti della terra, le classifiche, i campionati, i record. Nel nostro vivere tutto è misurato, anche lo stato dell’arte. C’è un bene vivente che non si può misurare: la bontà.

Se prestiamo attenzione alla Parabola di Mt. 20,1-16, oggi letta, in essa si racconta di due categorie di attori. Tutti gli operai, presi a giornata in ore diverse come lavoratori nella vigna, operano misurando le ore del lavoro fatto e sperano un salario corrispondente. Il padrone, unico nel racconto, è libero dalla misura, perché animato e mosso dalla bontà.

Il racconto identifica il padrone con il Dio della vita. Dio non ha misura, quando amando crea e questo creare è di ogni giorno e di ogni ora. Ogni cosa creata è buona.

L’uomo fatto simile a lui è capace di amare e creare; può incorrere nel più grave dei peccati l’indifferenza e la pigrizia.

Nella Parabola il padrone riversa sull’uomo la dismisura: “Sei tu invidioso, perché io sono buono?

La meritocrazia ha una sua logica, ma essa non può misurare ogni agire dell’uomo. Per crescere nella libertà, l’uomo deve avventurarsi nella dismisura.

Oggi sperimentiamo una grande opportunità nel nostro vivere sociale, la possibile accoglienza dei migranti. Integrare tra noi queste persone è un vero scambio di doni di vita tra noi e loro, perché la loro presenza in mezzo a noi diviene un laboratorio di democrazia e di convenienza, nel quale deve agire oltre che la meritocrazia anche la dismisura.

Ricorderò, per tutta la vita, un’esperienza di 20 anni fa a San Cristóbal de Las Casas, Chiapas in Messico. Guidati dal Direttore del museo e da lui accompagnati, visitammo la tribù dei Ciamula che vivevano come una enclave nel territorio. Questo territorio era protetto nell’unica strada di accesso a circa 300 metri dall’ingresso da una fascia di chiodi aguzzi che impedivano l’accesso al pullman che ci ospitava. Dovemmo scendere, togliere le catenelle, le cinture dei pantaloni e, a quel punto, avemmo l’accesso: due a due con alle spalle una simpatica guardia ciamula armata di bastone.

Visitammo il villaggio, la chiesa, il cui pavimento era coperto di fieno, ci inginocchiammo con loro a pregare le immagini cristiane allineate lungo le pareti. Compiuto il rito, sulla piazza, constatato il nostro corretto comportamento, venne a noi permesso di visitare anche le abitazioni, tante ancora con il tetto di paglia.

Andai dietro a un maialino nero che mi condusse all’interno del recinto di una casa. Un’anziana nonna, dignitosissima nel suo povero abito e nel suo gesto, mi invitò a entrare nella capanna. Radunò figli, figlie, nipoti: ci salutammo a parole e a gesti, un’accoglienza festosa. Mi offrirono frutti in abbondanza, parlammo per più di un quarto d’ora, essi in ciamula e io in piemontese.

Giunse l’ora del congedo. La Signora madre oltre che frutti, mi donò una statuetta di legno scolpita da qualcuno di loro e mi disse congedandomi “Ma je gi!”. Feci un grande inchino e a tutti dissi: “Bun dì”.

Giunto al pullman, in ritardo, chiesi al Direttore del museo il significato di “Ma je gi”. Il Direttore si stupì molto della mia richiesta, al punto che aveva difficoltà a rispondermi: “Ma proprio così le disse?” “Non potevo, caro Direttore, inventare queste parole”. “Certo!… Esse dicono: «quello che è mio è tuo»… E poteva essere ospitato e restare con loro”.

A San Cristóbal de Las Casas, quel giorno, avevo sperimentato la dismisura e la bontà.

 Don Renzo

Domenica 24 settembre 2017